mercoledì 5 giugno 2013







Lo zuccherificio di San Pietro in Casale era un posto magico, una sorta di Castello Errante di Howl, un aggregato semivivente di non luoghi, una gigantesca macchina ronzante, sgocciolante, ammiccante.

Ho lavorato lì per due estati ai tempi della mia prima carriera universitaria, prima come aiuto elettricista poi come ingrassino, quando lo stabilimento era già sull'orlo della pensione.

Più o meno ventenne, mi innamorai veramente di quel posto.

Sono passati quasi dieci anni, e ho ancora i ricordi coloratissimi di quelle estati, il chè non mi succede, per assurdo, con la mia morosa dell'epoca.
Dello zuccherificio ho immagini incredibilmente vive: le ronde notturne nel caldo infernale e nel rumore assordante della centrale termica (Calcifer?); la benna del forno calce da ingrassare sporgendosi a una quarantina di metri d'altezza; il paesaggio natalizio del reparto condizionamento, silenzioso e completamente innevato di polvere di zucchero; l'odore dolciastro del “sugo”, e quello nauseabondo delle tagliatrici.

La sigaretta, sul tetto del silos, mentre guardavo l'alba.

Mi sentivo bene quando lavoravo.
In qualità di operaio avventizio non mi ammazzavo certo di lavoro e guadagnavo un sacco di soldi coi quali mi ripagavo gli studi (e mi compravo pure qualche chitarra).
Era il mio primo contatto con il mondo del lavoro, così lontano da quello che conosco ora: la fabbrica, gli operai, i turni, i calendari delle zozze sui muri e le bestemmie gratuite. E i pranzi nell'officina elettrica sui tavoli rivestiti di gomma dopo aver spostato gli strumenti e steso tovaglie di scottex.
Mi piaceva far parte di quel mondo, seppur per i pochi mesi estivi e ben sapendo che le mie ambizioni erano altre.
In un qualche modo mi sentivo adulto per la prima volta.
Ma quello che mi piaceva di più erano i lavoratori. Rappresentavano per me una sorta di incontro con la generazione precedente la mia: quella che di certo non te le mandava a dire, che veniva dagli anni '70, che stava portando avanti la causa per l'amianto, che aveva vissuto anche trenta campagne saccarifere estive.
Il mio preferito tra di loro era Montagner, un omone sempre sudato senza un dente, spedito ventenne da Mestre trent'anni prima per evitare che continuasse a drogarsi come un cavallo.

Caro vecchio Montagner: il massimo esperto di rock progressivo che io abbia mai incontrato.






Oggi è il penultimo giorno che passo in zuccherificio, turno del mattino; entro nel reparto pellet, quello in cui si fanno i mangimi con gli scarti delle bietole.
Conosco a memoria i motori che dovrò ingrassare e so di per certo che i primi hanno l'attacco sottile. Così mentre salgo le scale svito la testina larga dalla pompa per innestare quella stretta e guadagnare così un po' di tempo. Quel giorno, però, dopo tre o quattro scalini la testina mi scivola tra i guanti unti, s'infila tra le grate e cade sul pavimento di sotto.
Strano, penso: tre mesi di campagna e non mi è mai successo. Scendo i pochi gradini, e non appena mi lascio la scalinata a fianco sento uno, due, tre colpi metallici, fortissimi, e mi trovo immerso in una nuvola di polvere.
checcazzoè! mi cago letteralmente sotto.
Subito mi accorgo di un pezzo di metallo pesantissimo, una specie di trave, provo a raccoglierlo ma è troppo pesante: era caduto dal piano di sopra, ed era rimbalzato un paio di volte sulla ringhiera. Me ne rendo conto subito: se non mi fosse caduta quella cazzutissima testina io adesso sarei su quella scala con una trave di quarantachili tra capo e collo.
Incredibile, assurdo, il fato, un segno divino, l'universo non voleva che me ne andassi adesso: le penso tutte mentre risalgo a capire che cosa sia successo.
Uno dei capiofficina, palesemente ubriaco, stava smontando un macchinario, e quel pezzo era accidentamente scivolato giù.
Si accorge che sono sotto shock, e pure un po' incazzato.
“Cosa vuoi che ti dica, sono cose che succedono!” mi dice sorridendo.

Quegli ultimi due giorni li passai chiuso in officina e non ingrassai nemmeno un fottuto motore: non avevo voglia di morire in uno zuccherificio.



Mi dispiace un po' che non ci sia più quel posto.

giovedì 16 maggio 2013

Jag-Stang


Me la ritrovai lì davanti.
“Ma scusa Gianni, e quella cos'è...?”
“Una Fender Jagstang!”
“...”
“Non la conosci? L'ha praticamente disegnata Kurt Cobain!”
“Cazzo! Bellissima!”
E mi raccontò la sua storia.
Nonostante costasse relativamente poco, non potevo permettermela. Gianni la vendette, e io in un qualche modo me ne dimenticai.

Un paio di anni dopo mi richiamò lui: “Ti ricordi la Jagstang? Me l'hanno riportata in negozio, se vuoi puoi venire a provarla...”
“Tu mi vuoi male! Lo sai che se poi la provo la compro...”

La sua storia.
Kurt, strafatto, ritaglia il manico dell'immagine di una Mustang, e il corpo di una Jaguar; li incolla insieme su un foglio bianco. “Jag-stang”, ci scrive sotto, con una calligrafia tremolante, quasi distratta. Spedisce tutto alla Fender Inc. “Voglio una chitarra così”, ci scrive.
E loro gliela fanno, uguale, identica.
Peccato che il buon Kurt avesse incollato il manico leggermente storto, e la chitarra risultasse fuori asse, senza equilibrio.
Beh, loro gliela fanno così lo stesso: storta.

L'anno scorso ho tenuto a casa mia per più di un mese una Danelectro verdina, in prova. Suonava benissimo, e mentre la suonavo guardavo la Jagstang, azzurro acqua, e mi sentivo in colpa a pensare che fosse più bella. Non comprai la Dano, decisi di rimanere fedele alla mia vecchia amicona, convincendomi che quella fosse stata solo un'insensata sbandata.

Non sono uno di quei rocker che hanno un rapporto morboso con il proprio strumento, anzi. Spesso, mi dimentico che esiste.
Forse sarà perchè è un'outsider, una chitarra storta, strana: io amo ciò che non è convenzionale, che gli altri non capiscono.
Forse sarà il colore, poco aggressivo, leggero.
Forse il fatto che quella zoccola di Curtney Love si è presa i diritti, e quindi la Jagstang è fuori produzione, è solo mia.
Forse perchè quel pazzoide ci ha piazzato sopra un Humbucker e un Single Coil, dichiarando al mondo che le patatine fritte e la Nutella possono convivere.

Forse per quel gesto di libertà, quella visione, quell'assurdità geniale di unire due ritagli, che ancora oggi racconto questa storia a chi mi chiede della mia chitarra.

Colleghi, allievi, musicanti che incontro nel mio viaggio.

Mostro loro la scritta “Designed by Kurt Cobain” dietro la paletta, e mi compiaccio nel continuare a raccontare, nell'arricchire, nel nascondere.
Non so nemmeno più se questa storia è reale, ma non credo che sia questo l'importante.



La Gatta


Faccio entrare la gatta.

A casa mia i gatti non hanno nome, lei è la gatta.
Entra spesso con me la sera, e questa è una di quelle sere in cui mi rendo conto che esiste, e scelgo di darle una carezza.
È una gatta selvatica: quando siamo venuti qui era piccola, diffidente e non si lasciava avvicinare.
Un po' mi dispiaccio di non accarezzarla mai, e mi chiedo cosa cavolo pensi, come sia la sua vita, mi capita spesso con gli animali.
Abbassa la schiena, come per schivarmi: un gesto che non ha mai smesso, il residuo automaticamente scattante e staccante della sua selvaticità.
E allora mi chiedo un'altra cosa: mi chiedo come sia possibile che ancora non l'abbia capito, che noi non le faremmo mai del male.
Forse, quella carezza proprio la infastidisce, è quell'orribile e schifoso contatto con quegli esseri lumacosi che sono gli umani, ma è ciò che bisogna sopportare per una calda dormita sui panni da lavare e una mangiata a sbattimento zero.
Forse, allora, per vivere bene bisogna scendere a compromessi, non volere tutto perfetto.

Equilibrio.

Significa che su uno dei due piatti c'è qualcosa che bisogna sopportare.

Lamborghini


Mi sono appena lasciato alle spalle Sant'Agata Bolognese.
Uno dei tanti paesini nebbiosi ai confini della provincia, che si distingue per aver dato i natali a Nilla Pizzi, e per la sproporzionata presenza di un multisala e di un grosso festival rock estivo.
Continuo dritto su via Modena, poi svolto a sinistra e varco il cancello nero, uno spalancato preludio ad un neanche troppo elegante piazzale: piccolo, asfaltato, abbracciato da due aiuole curatissime.
Davanti a me la fabbrica, anche lei nera, ma di un nero lucido. E l'enorme scritta, famosa in tutto il mondo: Lamborghini.

Una volta vidi un film nel multisala di S.Agata, non ricordo se uno degli ultimi Batman o James Bond o roba simile. Il protagonista guidava una Lamborghini e io pensai: che roba.
Le facevano a meno di 100metri.

Nel piazzale c'è un uomo, anche lui vestito di nero. Mi accorgo avvicinandomi che ha lo stemma giallo sul petto. Penso: “cazzo che divisa figa che hanno gli operai qui”.
Si avvicina alla macchina, mi chiede chi sono, chi cerco, se ho un documento e mi invita cortesemente a parcheggiare fuori, nel parcheggio a 250metri, e di raggiungere la portineria a piedi.
Dev'essere una specie di buttafuori per macchine, ma non riesco ad inquadrare bene la sua mansione.

Ritorno a piedi alla portineria, saluto il buttafuori per macchine e gli chiedo se posso procedere.
Alla reception c'è una ragazza, occhi azzurri, vagamente slava. Mi chiede un documento, mi fa compilare una liberatoria. Mi applica un adesivo figurante “divieto di fotografare” sulla fotocamera dello smart phone. Non fa in tempo a pronunciare la fatidica “prego, può accomodarsi” che il mio uomo appare da una vetrata, seguito dal suo “corsista”.

“Ecco, si tratta di un paio di firme. Una qui, un'altra qui”.
“La ringrazio, arrivederci!”
“Buona giornata anche a lei!”

Esco da lì, con in mano la mia check-list, da reinviare a ManPower Formazione Roma.
15 euro per 10 minuti di lavoro, come tutor occasionale di un'agenzia interinale.
Non penso a niente, a parte che mi piace vivere qui.












Ogni cosa è anche il suo modo di nascondersi.