Lo zuccherificio di San Pietro in
Casale era un posto magico, una sorta di Castello Errante di Howl, un
aggregato semivivente di non luoghi, una gigantesca macchina
ronzante, sgocciolante, ammiccante.
Ho lavorato lì per due estati ai tempi
della mia prima carriera universitaria, prima come aiuto elettricista
poi come ingrassino, quando lo stabilimento era già sull'orlo della
pensione.
Più o meno ventenne, mi innamorai
veramente di quel posto.
Sono passati quasi dieci anni, e ho
ancora i ricordi coloratissimi di quelle estati, il chè non mi
succede, per assurdo, con la mia morosa dell'epoca.
Dello zuccherificio ho immagini
incredibilmente vive: le ronde notturne nel caldo infernale e nel
rumore assordante della centrale termica (Calcifer?); la benna del
forno calce da ingrassare sporgendosi a una quarantina di metri
d'altezza; il paesaggio natalizio del reparto condizionamento,
silenzioso e completamente innevato di polvere di zucchero; l'odore
dolciastro del “sugo”, e quello nauseabondo delle tagliatrici.
La sigaretta, sul tetto del silos,
mentre guardavo l'alba.
Mi sentivo bene quando lavoravo.
In qualità di operaio avventizio non mi
ammazzavo certo di lavoro e guadagnavo un sacco di soldi coi quali
mi ripagavo gli studi (e mi compravo pure qualche chitarra).
Era il mio primo contatto con il mondo
del lavoro, così lontano da quello che conosco ora: la fabbrica, gli
operai, i turni, i calendari delle zozze sui muri e le bestemmie
gratuite. E i pranzi nell'officina elettrica sui tavoli rivestiti di
gomma dopo aver spostato gli strumenti e steso tovaglie di scottex.
Mi piaceva far parte di quel mondo,
seppur per i pochi mesi estivi e ben sapendo che le mie ambizioni
erano altre.
In un qualche modo mi sentivo adulto
per la prima volta.
Ma quello che mi piaceva di più erano
i lavoratori. Rappresentavano per me una sorta di incontro con la
generazione precedente la mia: quella che di certo non te le mandava
a dire, che veniva dagli anni '70, che stava portando avanti la causa
per l'amianto, che aveva vissuto anche trenta campagne saccarifere
estive.
Il mio preferito tra di loro era
Montagner, un omone sempre sudato senza un dente, spedito ventenne
da Mestre trent'anni prima per evitare che continuasse a drogarsi
come un cavallo.
Caro vecchio Montagner: il massimo
esperto di rock progressivo che io abbia mai incontrato.
Oggi è il penultimo giorno che passo
in zuccherificio, turno del mattino; entro nel reparto pellet, quello
in cui si fanno i mangimi con gli scarti delle bietole.
Conosco a memoria i motori che dovrò
ingrassare e so di per certo che i primi hanno l'attacco sottile.
Così mentre salgo le scale svito la testina larga dalla pompa per
innestare quella stretta e guadagnare così un po' di tempo. Quel
giorno, però, dopo tre o quattro scalini la testina mi scivola tra i
guanti unti, s'infila tra le grate e cade sul pavimento di sotto.
Strano, penso: tre mesi di campagna e
non mi è mai successo. Scendo i pochi gradini, e non appena mi
lascio la scalinata a fianco sento uno, due, tre colpi metallici,
fortissimi, e mi trovo immerso in una nuvola di polvere.
checcazzoè! mi cago letteralmente
sotto.
Subito mi accorgo di un pezzo di
metallo pesantissimo, una specie di trave, provo a raccoglierlo ma è
troppo pesante: era caduto dal piano di sopra, ed era rimbalzato un
paio di volte sulla ringhiera. Me ne rendo conto subito: se non mi
fosse caduta quella cazzutissima testina io adesso sarei su quella
scala con una trave di quarantachili tra capo e collo.
Incredibile, assurdo, il fato, un segno
divino, l'universo non voleva che me ne andassi adesso: le penso
tutte mentre risalgo a capire che cosa sia successo.
Uno dei capiofficina, palesemente
ubriaco, stava smontando un macchinario, e quel pezzo era
accidentamente scivolato giù.
Si accorge che sono sotto shock, e pure
un po' incazzato.
“Cosa vuoi che ti dica, sono cose che succedono!” mi dice sorridendo.
“Cosa vuoi che ti dica, sono cose che succedono!” mi dice sorridendo.
Quegli ultimi due giorni li passai
chiuso in officina e non ingrassai nemmeno un fottuto motore: non
avevo voglia di morire in uno zuccherificio.
Mi dispiace un po' che non ci sia più
quel posto.
Ahahahah, bellissimo post!
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